L’emozione è forte. Assistere allo scoprimento del rinnovato Apollo del Belvedere è stato come tornare indietro nel tempo a quando l’anonimo autore, immaginiamo, lo mostrò in pubblico.
Un autore dell’Antica Roma, ammaliato da tanta bellezza di questa opera greca realizzata in bronzo, tanto da decidere di riprodurla in marmo.
Materiale più fragile per resistere ai secoli ed inoltre una conservazione ancor più complicata a causa della postura del Dio Apollo, inclinata in avanti.
Tutto questo, e il trascorrere del tempo, ha portato al rischio di perdere per sempre questo capolavoro dell’Arte romana. “Icona di bellezza”, come ha avuto modo di affermare Barbara Jatta direttrice dei Musei Vaticani, nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’avvenuto restauro.
Vedere la statua dopo la spiegazione degli interventi di chi ha operato su di essa è stato ancora più emozionante. Si è detto che il restauro è stato effettuato “in equilibrio tra tecnologia e filologia”. Ed è così perché accanto alla strumentazione oggi a disposizione c’è stato il rispetto dell’intento originale e tanto amore da parte dello staff che per due anni si è dedicato all’Apollo.
Nel 2019 si decise di intervenire e d’urgenza sulla statua che abbellisce il Belvedere dei Musei Vaticani grazie al costante monitoraggio al quale sono sottoposti tutti i preziosi capolavori custoditi. Un progetto interrotto dalla pandemia, ripreso un paio di anni fa da un team allargato composto oltre che da tecnici anche da esperti di scienza tecnologica.
“L’Apollo – racconta il vice direttore artistico-scientifico Giandomenico Spinola – è stato come avere un paziente sottoposto ad attente analisi anche nel corso dell’opera”.
Ed ecco le endoscopie, le indagini computerizzate, la minuziosa ricerca per capire come e dove intervenire. E, come un paziente umano, la scoperta che l’età (in questo caso più che avanzata) aveva portato a serie complicanze che riguardavano le ginocchia, le caviglie.. e poi c’era la questione della mano sinistra del Dio. Un arto restituito all’Apollo grazie al ritrovamento, negli anni ’50, di un frammento in gesso tra i tanti recuperati nell’area archeologica di Baia. E tra i frammenti è stato possibile riconoscere proprio la mano mancante.
Per tornare al restauro… “La statua si muoveva – ci spiega Fabio Morresi, assistente presso il Laboratorio di diagnostica per la conservazione ed il restauro mentre osserviamo il capolavoro – e per via di quella postura in avanti e per il trascorrere del tempo. Ed ecco l’idea di un sostegno, come peraltro aveva intuito il Canova. Un elemento posteriore in fibra e carbonio ancorato al basamento utilizzato con fori e incassi già esistenti. In questo modo abbiamo ridotto di circa 150 chili il peso che grava sulle fratture più delicate. Operare su questo capolavoro – confida Morresi – ha richiesto a tutti noi la consapevolezza di intervenire sulla storia ma spesso abbiamo freddamente pensato di intervenire su un “oggetto” per alleggerire la responsabilità”.
Bellezza. Grazia e potenza di questa magnifica opera. Storia antica e tecnologie moderne si intrecciano. Un messaggio forte e chiaro nell’era di intelligenze artificiali, dove artificiale sta per “ accorgimento o procedimento tecnico che imita o sostituisce l’aspetto, il prodotto o il fenomeno naturale”. Ma nulla è possibile senza l’animo umano.
LA STORIA
Un viaggio lungo secoli. Che precede la realizzazione, in epoca romana dell’originale greco. Un segno della ricerca della bellezza senza confini.
La statua venne scoperta a Roma nel 1489 tra le rovine di un’antica domus sul colle Viminale e subito fu acquisita dal Cardinale Giuliano della Rovere. Divenuto Papa con il nome di Giulio II (1503-1513), egli fece trasferire la scultura in Vaticano, dove è attestata in Belvedere fin dal 1508. All’epoca l’Apollo doveva essere integro, mancante solo della mano sinistra e delle dita della mano destra; tra il 1532 e il 1533 venne eseguito il restauro a opera di Giovannangelo Montorsoli, il quale completò il braccio sinistro, sostituì l’avambraccio destro e integrò la sommità del tronco d’albero sul quale appoggiava così il nuovo braccio.
Il dio Apollo ha appena scagliato una freccia con il suo arco che, originariamente, doveva impugnare con la mano sinistra. La statua venne realizzata da una bottega copistica che, operante a Roma nei primi decenni del II secolo d.C., replicò appunto un capolavoro bronzeo eseguito in Grecia intorno al 330 a.C. probabilmente dall’ateniese Leochares, uno degli artisti più celebri del tempo.
Un viaggio che portò l’Apollo persino a Parigi per poi rientrare a Roma nel 1816.
Molto ammirato fin dalla sua collocazione in Belvedere, deve la sua consacrazione alle ispirate pagine di Johann Joachim Winckelmann che la considerava una sublime espressione dell’arte greca, “il più alto ideale dell’arte tra le opere antiche che si sono conservate fino a noi”.