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18/9/2017 – Sono varie le forme di violenza e di molestie che si possono evidenziare sul luogo di lavoro, possono essere di natura fisica, psicologica e sessuale. Spesso anche in intreccio tra di loro.
Le molestie sessuali sono da ricondurre ad ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale che offende la dignità di chi lavora. Il molestatore crea un clima intimidatorio, ostile, umiliante e offensivo con insinuazioni e commenti sull’aspetto esteriore, contatti fisici non desiderati. Non è importante l’intenzione del molestatore ma la percezione di accettazione o meno da parte di chi li riceve, in quanto viene intaccata la sfera emozionale che può ledere nel vissuto la dignità, l’integrità personale e l’immagine di sé. Chi subisce ciò che non vuole inizia a manifestare stati di agitazione, di ansia che si possono trasformare in veri disturbi come il post traumatico da stress o di ansia ed adattamento sociale.
Il mobbing è una forma di violenza psicologica sul lavoro che viene esercitato da chi nella gerarchia aziendale ha un ruolo superiore o anche dagli stessi pari grado. Nel mobbing la vittima viene emarginata, dequalificata nel ruolo e nelle mansioni, squalificata ed anche derisa. Questa forma di violenza ha, dunque, la finalità di ledere i diritti e la dignità, di alterare la salute fisica e/o mentale intaccando il futuro lavorativo/professionale di chi subisce ed anche il clima lavorativo nel suo complesso. Si tratta di un vero logorio psicologico anche perché spesso per la vittima diventa difficile dimostrare le vessazioni a cui è sottoposta.
La differenza tra mobbing e molestie è che le seconde possono anche essere frutto di un solo episodio, il primo invece è ripetitivo, seriale. Il molestatore ha come movente l’atto sessuale, il mobber vuole infastidire, creare difficoltà o allontanare la vittima.
Vi è poi anche la figura dello stalker il cui intento è avvicinare e sottomettere la vittima. Non sempre vuole abusare sessualmente, piuttosto desidera esercitare il proprio potere. Mette in atto azioni intimidatorie con intenzionalità, reiterando nel tempo al fine di generare ansia e paura con una intensità crescente. Nello stalking occupazionale la vittima deve trovarsi costantemente in una posizione di inferiorità.
La violenza psicologica mira alla manipolazione dei dipendenti. Spesso la strategia è di lasciare in “sospeso” facendo intendere delle decisioni che mirano a paralizzare il lavoratore. Ad esempio, se la minaccia di licenziare è velata, fatta intendere ma non detta esplicitamente, il dipendente tenta di ovviare a questo rischio cercando di essere sempre disponibile, facendosi carico di un impegno lavorativo sempre maggiore, che annulla la possibilità di pensare e di comprendere sino in fondo la manovra che è subliminale. Tutto questo causerà nel dipendente sfiducia, calo di motivazione e di interesse al proprio benessere.
La violenza più ricorrente è quella trasversale verso il basso , vale a dire tra un superiore ed il subordinato.
Non si può però neanche trascurare la violenza trasversale verso l’alto, cioè quando chi riveste un ruolo gerarchicamente inferiore, crea alleanza con i colleghi per intaccare la leadership del capo. Così come esiste anche la forma di violenza psicologica orizzontale, quindi tra pari grado, che ha l’obiettivo di screditare, di annullare la possibilità che qualcuno possa emergere a discapito degli altri. Spesso è proprio l’azienda che mette in atto strategie ben definite. Si tratta del cosiddetto Bossing una forma di mobbing che l’azienda attiva per colpire e liberarsi del dipendente scomodo. Un esempio può essere il far circolare una sorta di lista nera di eventuali licenziamenti che però rimarrà solo ufficiosa. Questo aumenterà la tensione, l’insicurezza, il non potersi sentire tranquillo della continuità lavorativa. Spesso è lo stesso lavoratore ad allontanarsi perché esaurito emotivamente da questa tensione, oppure ad ammalarsi (a livello psico-somatico, con attacchi di ansia generalizzata) quindi ad assentarsi dal contesto lavorativo rendendo comunque di successo la strategia aziendale. Passiamo all’esperienza vissuta da Filippo, uomo di 54 anni. Ha lavorato nella stessa azienda per quasi trent’anni, con declino emotivo importante negli ultimi dieci che lo ha portato ad una forma depressiva paralizzante. Entra in azienda a 25 anni, appena laureato, fa la gavetta per circa dieci anni occupandosi di vari progetti all’interno sempre dello stesso team, con colleghi che erano lì da parecchi anni, con a capo sempre la stessa persona. Filippo caratterialmente, anche per le sue origini ed esperienza familiare, è una persona con un grande senso di responsabilità. Persona immediata, semplice tendente alla timidezza. Questa quantomeno è la descrizione che fa di sé ricordandosi alle prime armi in quella azienda. Dopo circa 8 o 9 anni il suo capo ha un avanzamento di carriera e per sostituirlo viene scelto proprio Filippo, a cui viene quasi imposto di accettare. Il gruppo di lavoro in quegli anni lo aveva sicuramente apprezzato per la sua onestà e responsabilità lavorativa così come per le sue capacità di risolutore di problematiche ma, allo stesso tempo, proprio per gli stessi motivi, era stato vissuto dai colleghi come un pericolo nel raggiungere le poche possibilità di promozione che in quel momento potevano esserci. La scelta del precedente capo di essere sostituito da Filippo avalla e fortifica il preconcetto che si era creato attorno a Filippo. Vanno avanti per circa quattro anni, con un equilibrio che Filippo sapeva essere solo di superficie malgrado il suo tentativo di puntare molto sul rinforzo e riconoscimento di competenza dei suoi colleghi, aspetto totalmente trascurato dal precedente capo. I colleghi però avevano sentito forte l’errore di non essere stati interpellati dai superiori nella scelta del proprio superiore. Tuttavia, invece di farlo esplicitamente presente a chi a suo tempo aveva deciso per loro in maniera arbitraria, hanno proiettato su Filippo tutta la frustrazione, la paura di rimanere bloccati senza possibilità di avanzamento di alcun tipo all’interno dell’azienda. Non hanno mai voluto stringere rapporti più forti con Filippo, hanno sempre parlato di lui in maniera squalificante e anche aggressiva ma senza esporsi direttamente ad un vero confronto con lui su ciò che pensavano. L’azienda ad un certo punto si è trovata in notevoli difficoltà economiche e ha scelto di tagliare le figure intermedie. Dunque la figura di Filippo è stata completamente annullata e gli è stato chiesto di tornare nel suo team non più come capo ma come pari grado. La violenza psicologica orizzontale che i colleghi attivano diventa devastante per Filippo, ma ovviamente per l’intero sistema, in quanto quel reparto che comunque era stato sempre molto produttivo, inizia a rendere meno, a dare problemi importanti all’azienda che però non si occupa assolutamente delle dinamiche interne e di comprendere cosa stia succedendo a quel team, agli individui ed alle relazioni tra di loro. Dopo alcuni anni Filippo tenta di prendere emotivamente fiato chiedendo un part time ma oramai si era avviato in lui il processo di devastazione psicologica, di calo di autostima, di senso di inadeguatezza, di lesione della dignità da non riuscire più a risollevarsi. Sentiva di essere cambiato dentro, di aver dovuto per troppo tempo sopravvivere cercando anche di intaccare il suo modo di lavorare per essere più allo stesso passo ed essere meno in avanti rispetto agli altri. Il suo tentativo per anni era stato quello di far capire ai colleghi di non essere “molesto” rispetto al loro personale spazio nell’azienda, di essere semplicemente uno come loro. Ora però tutto in lui è letteralmente paralizzato.
A parere di chi scrive, per le persone che vivono una condizione simile a quella di Filippo è importante lavorare in psicoterapia a livello individuale nel rispetto e nella possibile libera espressione della propria condizione emotiva ma, per potenziare il percorso di recupero di sé rimanendo all’interno dello stesso contesto lavorativo, sarebbe opportuno ciò che nella maggior parte delle situazioni al terapeuta non è concesso, vale a dire inserire nel processo terapeutico anche uno spazio di interazione con il sistema lavorativo di appartenenza del paziente. Ciò perché spesso il rinforzare e accompagnare la persona al recupero delle proprie energie emotive e nel ritrovare se stessa la spinge a rendersi conto delle dinamiche
in cui è stata immersa e questo può portare alla esplicitazione di emozioni altamente negative (rabbia nei confronti dei colleghi e dell’azienda) che, affinchè il paziente possa decidere di rimanere nel medesimo contesto, devono essere modulate e contenute attivando comunque una grande fatica. Filippo ha scelto di non vivere più emozioni negative legate al lavoro e ha cercato, seppur con tante difficoltà, un’alternativa professionale in un altro contesto.
Dottoressa Stefania Martina – psicologa, psicoterapeuta